intervista per TESI
XXX: Partendo dalla riflessione che ogni epoca ha il proprio concetto di "arte contemporanea"
e dalla considerazione che esso, come risposta alla propria connaturata caratteristica di mutevolezza,
si evolve nel tempo, è nata la mia idea di volerlo definire "adesso", tentando di stabilire
quale siano le peculiarità di un'opera affinché sia definita contemporanea.
Ho pensato di chiedere, a chi opera nel settore (quindi curatori, studiosi, critici, artisti, collezionisti),
cos'è l'arte contemporanea e cosa s'intende per contemporaneo, oggi, nel 2011, quindi:
cos'è un'opera contemporanea e perché è contemporanea?
Carlo De Meo - (14 marzo 2011, ore ventunoetrentasei) Oggi è più difficile rispondere a questa domanda, forse domani sarà più semplice ma di certo ieri mi sembrava tutto più chiaro. Ma il dubbio mi assale in questa sensazione di essere proiettato in un “dopodomani” e pensare a domani come un ieri. Ho davanti a me un’opera d’arte contemporanea.
(15 marzo 2011, ore diciottoeventitré) Ho ancora davanti a me un’opera d’arte contemporanea. Ieri ero in difficoltà, la sensazione di un tempo deformabile mi disorientava in una sorta di confusione temporale, un “subitodopo” che non mi permetteva di adagiarmi su un presente appena trascorso. E oggi? Oggi rimando tutto a domani.
(16 marzo 2011, ore dodiciecinquantuno) Avendo davanti a me, da tre giorni, un’opera d’arte contemporanea, oggi, potrei rispondere ma un’altra domanda mi assilla: un’opera d’arte contemporanea dopo tre giorni è ancora contemporanea?
(17 marzo 2011, ore ottoequarantasei) Un’opera d’arte contemporanea, per un’attimo in un tempo, sa essere sublime. Mi sono svegliato con questo pensiero e, mentre fumo la quarta sigaretta, cerco di capire perché quest’opera d’arte contemporanea non lo è stata.
(18 marzo 2011, ora sei) Questa mattina, con ancora l’aroma di caffè nell’aria, quest’opera d’arte contemporanea è bellissima. Sublime per un attimo, e il non rispondere potrebbe essere.
carlodemeo, 17 marzo 2011
intervista per TESI
Matilde Ionta, Sara Orlandini: Il contrasto è il tema centrale di questo numero, qual è la prima immagine che ti fa venire in mente? Come lo interpreti?
Carlo D Meo: L’ornitorinco mi ha sempre affascinato (in questo senso) ma non è la prima immagine che mi si è visualizzata nella mente. Avrei preferito “l’ornitorinco”, parlare dell’o….o….o e descriverne i particolari con altrettanti ooo! Ma i miei occhi sono stati più veloci e mentre pensavo all’o….o….o ecco che dell’ornitorinco non restava che un OR…ribile sensazione di interferenza, un fastidioso contrasto tra ciò che stavo per pensare e un’immagine saettante, infiltratasi velocemente, veloce, veloce nella mente a scardinare un accomodante pensiero, rasserenante come un ornitorinco. Lo sentite? ORni-To-RINco. L’ornitorinco sarebbe stato giusto, adeguato, rassicurante con le sue tre O, …, con tre O sto e starei a parlare per ore dilungandomi in inutili utilità linguistiche. Ma se con “tre” sto, con “tra”?
Il problema sta nella A, forse (cerco un “capro”), che la parola ornitorinco non contiene, ci sono I e O (simmetricamente sistemate: o..i.o.i..o), ci sono IO e “la prima immagine che mi è venuta in mente”. Stavo ancora leggendo la domanda quando, tra un …ma e un im…, un ROSSO vibrante mi ha aperto verso un fremente VERDE. ROSSOVERDE. L’immagine che ho davanti è rossa e anche verde. L’immagine che ho davanti non è un’immagine. L’immagine che ho davanti ha bisogno di un corpo… un ornitorinco rossoverde? Potrebbe essere ma non è la prima immagine che ho visto.
Tra un ma e un im ho visto un rossoverde, il verde in contrasto al rosso, uno complementare dell’altro, contrapposti nello spettro cromatico.
Un ornitorinco non si guarda mai allo specchio.
E la densità luminosa del rosso è identica a quella del verde.
Un ornitorinco raramente si confronta con un’anatra, una N tra due A.
In una traduzione in grigio della gamma cromatica, il rosso e il verde risulterebbero identici tanto che un farmacista siglerebbe l’operazione con un “ANA”: stessa dose luminosa. Il rosso e il verde contrastanti per un unico, intimo grigio.
Un ornitorinco partorisce uova.
E il grigio è difficile da comprendere. Forzatamente lo separo in bianco e nero.
E Il contrasto tra rosso e verde mi fa vibrare gli occhi in infinite e caleidoscopiche bugie spiaccicando, su un campo orizzontale, la mia devastata percezione visiva.
Un ornitorinco saprebbe come calmare i miei nervi ottici.
Avverto una rassicurante sincerità nel bianco e nero, dimentico il verde e coloro di rosso il mio pollice destro per assaporare un po’ della mia vecchia infanzia. Cedo al bianco e mi rafforzo col nero… l’ornitorinco è il nero e il bianco è la sua ombra. Ma non è la prima immagine che mi è venuta in mente e, in questo, come al solito mento per un Bianconero, insieme e in mezzo a cui sto. Con/Tra/Sto.
MI.SO: Dal punto di vista concettuale il contrasto - tra oggetto e ombra, reale e non reale - emerge e si fa tangibile, in "Velovedete" e "Attento". Da dove è nata l’ispirazione per queste opere?
CDM: Raramente ho un’ispirazione, il più delle volte è un “fermo immagine”, un blocco momentaneo dello scorrere quotidiano, il più delle volte è un semplice inciampare su ostacoli impercepibili, non invisibili, impercepibili. Mi piace perdermi tra e nelle cose che normalmente accadono rinnovando un’attenzione muta, come un’Acca data in dono, un regalo inatteso, un’immagine che ti si spacchetta nella mente, ora, per un attimo.
Maggio 2011, forse. Sono a Roma, il mio treno parte tra quaranta minuti, esco dalla stazione per fumare un’altra sigaretta e, in mezzo ai vuoti serali, come un palo, sfoglio il giornale. La mia testa costruisce un ovale buio sull’articolo che sto leggendo, non ho voglia di spostarmi come il lampione che è alle mie spalle. Allora alzo di poco i fogli per ristabilire un ordine luminoso quel tanto che mi basta per focalizzare altre lettere. La mia testascura è ancora sul giornale ma qualche rigo più sotto della mia attenzione e questo non mi disturba. Distratto da una nuvola di fumo abbasso gli occhi ed ecco che vedo. Vedo la mia ombra, poco più sotto del limite inferiore del giornale, ma non sono io, vedo un “figuro” compresso in una sorta di nanismo dilatante con un’enorme testa inscatolata, cubitale senza contenuto e senza spessore (come di solito sono le ombre).
Ve lo vedete? Lui, lì, immobile, instupidito e con una grande testa squadrata a fare da risultato per una somma di improbabili addendi (io e il giornale). Il mio maestro diceva sempre che non si possono sommare le mele con le pere. Il mio maestro, forse, non aveva considerato le ombre.
Sul treno ho ripensato a quella insolita formula che mi si era posta innanzi: dati possibili Aleph-zero di soggetti diversi e coincidenti o sovrapposti in parte su una traiettoria luminosa, si andrebbe a creare, su una superfice di accoglienza, un nuovo elemento bidimensionale di fattore Z (ultimalettera) risultante dalla somma degli stessi e dal perimetro evocativo/deviante. In poche parole un’ombra altra.
Il fattore costruttivo per un’altra opera era dato, ora era necessario un “corpo” (per citare Leonardo) di cui vestirlo… e il vestito è quello che vedete, “VELOVEDETE”.
Per “ATTENTO, SDRAIATO SU UN TAVOLO, ATTENDO” possiamo sempre fare riferimento (metodologico) a quell’ostinato lampione che non ha voluto spostarsi per rendere agevole la mia lettura. Per il vestito, c’è da dire qualcosa in più.
Un anno dopo, circa, ripensando alla formula descritta e cercando una definizione per gli elementi costituenti un nuovo soggetto, ho balbettato sul termine ADDENDO… tre D, per il mio palato sono troppe e quindi ho deviato per un più pronunciabile ATTENDO, cadendo poi, per autocompiacimento verbale, su un ATTENTO, più consono alla mia pronuncia dal sapore partenopeo… in fondo raramente ho un’ispirazione, il più delle volte attendo, sdraiato su un tavolo.
MI.SO: Il nome di questa rivista nasce dalla crasi tra il verbo “to see” (vedere) e “to seek” (cercare), a sottolineare l’idea di “percezione” intesa come ricerca inconscia di significati all’interno del mondo tangibile. Come pensi di vedere il mondo? Qual è la percezione che hai di esso?
CDM: Prendiamo il termine terra in inglese, earth (no land, che mi sa tanto di geopolitica), associamolo alla parola cuore, heart, e otteniamo, per crasi (semplicemente per stare nel ritmo delle cose), hearth, focolare, intimoluogo dove sognare al battito ritmico della grande madre.
Ecco emergere il demeo romantico dalla facile singola lacrima. Due palle!... la Terra e la Luna e una terza più lontana che gioca alla vita, più in la non riesco ad andare, questo è il mio mondo. E in questo vivo.
Non sono mai riuscito ad averne una percezione chiara e lineare, continuo a percepirlo per frammenti più o meno grandi, a volte piccolissimi, a volte inesistenti, anche se mi piacerebbe definirli invisibili ma è un termine che non sopporto. Esistono, in questo, ciò che mi è più vicino, intimo, e ciò che mi è più lontano, sempre intimo. Credo che sia una questione di “intimità”. Mi piace pensare ad un rapporto universalmente intimo con il Mondo, io e Lui amanti, noi e Lui amanti, ad amarci con egoistico piacere in un’intimità perenne. Il mondo siamo Noi e noi siamo per me, per te e per noi.
MI.SO: In che modo invece percepisci te stesso? Qual è la percezione che hai di te stesso?
CDM: Non comprendo la necessità di queste due domante visto che sono una la variante dell’altra… mi sfugge qualcosa?, qualcosa di profondo e celato tra le righe? Un codice? O è un semplice accanimento sul tema?
Ecco che il soggetto divento io, cazzo!
Io sono quello che si domanda: quanto bianco può contenere un enorme spazio bianco?
O anche: questo foglio A4 è un enorme spazio bianco o è solo la percezione che ho di esso? E ancora: se in un enorme spazio bianco aggiungiamo del bianco, lo spazio sarà più grande? … del bianco, esiste una variante luminosa? E l’ombra del bianco è un bianco più scuro e se si, un bianco può essere più scuro? E come si scurisce un bianco facendo in modo che resti bianco?
E il nero?
La percezione che ho di me è quella di uno che crede nell’onestà intellettuale del bianco e del nero.
MI.SO: In aggiunta alle precedenti, vorremmo chiudere con un'ulteriore domanda che ci tocca particolarmente trovandoci alla fine del nostro percorso di studi:
Non sempre è facile capire che strada si vorrebbe intraprendere nella propria vita. Citando Salvador Dalì: “A tre anni volevo fare il cuoco, a cinque volevo già essere Napoleone.
La mia ambizione non fa che crescere, ed ora la mia ambizione è diventare Salvador Dalì, nient’altro. Del resto è molto difficile, poiché Salvador Dalì, man mano che mi avvicino a lui, si allontana da me.”
Da piccolo quale immaginavi sarebbe stato il tuo lavoro? Come si è modificata questa intenzione nel tempo?
CDM: Non ricordo di aver immaginato chissà che… mi sono sempre visto con delle forbici in mano, con matite o pennarelli, pennelli, spatole e pinze e seghe e poi fogli e fogli. Mi sono sempre immaginato di fare e dare qualcosa.
Amavo pensare per immagini e amavo trascriverle e renderle concrete. E poi tutto è incominciato ad accadere. Le medie, il liceo, l’accademia… l’artista. Non ho mai pensato che tutto questo potesse essere un lavoro anche se mi da da vivere da trent’anni…da, da,da… a volte ho fatto e faccio il professore.
intervista per EXIBART
MASSIMILIANO TONELLI - Come sei diventato un artista? Cosa è stato davvero determinante? In questo momento della tua vita stai facendo quello che hai effettivamente scelto o fai questo lavoro per cause fortuite?
CARLO DE MEO - Come si può rispondere a questa domanda... un dentista avrebbe detto -Studiando-, ma io, perso tra coincidenze e casualità, cosa dico se l’unica costante è il guardare?... Guardando l’orizzonte e vederlo dritto dopo che il maestro lo aveva descritto curvo? (troppo sensoriale). Guardando tre pietre in fila all’interno dell’ombra di un ulivo? (troppo alienato). O guardando l’impronta dei serpenti-bicicletta sulla spiaggia? (troppo visionario).
Sono diventato un artista cercando di Rivedere- ecco cosa potrei dire, sperando che questo banalissimo ‘rivedere’ renda l’idea di un processo di cui non ricordo l’inizio.
E così, ora, continuo a fare quello che ho sempre fatto non sapendo neanche se l’ho scelto o no.
MT - Solitamente spetta ai critici sintetizzare e descrivere la ricerca di un artista. Se dovessi invece sinteticamente, in tre righe, difinire la tua arte come faresti?
CDM - Come farei? in tre righe esatte? scriverei IN-CURIO-SITO... e poi continuerei -è il ‘subitodopo’ di una percezione visionaria, di un pensiero instabile, in-curio-sito, che è nel luogo del Curio (Cm - n.a. 96), della radioattività.- e concluderei con -un insieme di coincidenze e di anagrammi riordinati e risolti.
MT - Un tuo pregio e un tuo difetto nell’ambito dell’arte, quindi in campo lavorativo.
CDM - Parliamo prima del difetto. Sono incapace nell’intrapprendere e poi nell’intrattenere pubbliche relazioni, sono incapace di propormi e di costruire una mia immagine pubblica, in poche parole, sono incapace di promuovermi.
Passiamo ora al pregio. Sono un visionario dalla percezione veloce ed alterata, sono incoerente e incostante, sono svincolato e irrazionale con una grande capacità di razzionalizzare tutto questo.
MT - E nella vita?
CDM - Il mio grande difetto è che sono troppo preso da me (senso etico).
Il mio grande pregio è che sono troppo preso da me (senso pratico).
MT - Una persona davvero importante attualmente per il tuo lavoro?
CDM - Il collezionista deliziato dal mio lavoro.
MT - Sei soddisfatto di come viene interpretato un tuo lavoro? Chi l’ha interpretato meglio e chi invece ha preso una cantonata? Che rapporto hai con i critici e con la stampa?
CDM - Mi ha sempre divertito, ed è sempre bella, l’interpretazione, letta o sentita, che gli altri fanno di una mia scultura così da accrescerne il suo aspetto visionario. Diverso è se parliamo di ‘lettura’ dell’opera. Non sono molti (tra gli addettiailavori) quelli che hanno colto il fattore scatenante o l’azione formatrice di una mia opera. Tra questi pochi potrei citare Andrea Bellini con il suo “...riferimento ad una sorta di circolarità del procedimento costruttivo...” o un certo ‘Drago’ (mi scuso per il ‘certo’ ma non conoscendolo ho solo riportato la firma dell’articolo) quando afferma, tra le altre cose, “...dallo sfruttare quelli che sono i difetti...”. Per le cantonate faccio riferimento a tutti quelli che, in occasione della mostra Exit, hanno associato le mie ‘1/2 sfere’ (1999) ad alcuni noti lavori di Merz... la ‘calotta’ è una forma molto comune, si studia anche alle medie, dopo il cubo, la sfera, il parallelepipedo, la piramide e il cono c’è la calotta.
Per concludere, parlando di rapporti, credo di aver già risposto nel settore “difetti & pregi”; sono pochi, saltuari e faticosi.
MT - Che rapporto hai col luogo in cui lavori. Parlaci del tuo studio…
CDM - Il mio studio è come un arcipelago in un mare di quotidianità: un ex vano caldaia come deposito, una stanza nel mio appartamento, altre due con bagno sul terrazzo, un pezzo di cantina per i vecchi lavori e un bello spiazzo coperto in giardino. Ma preferirei parlare del mare che è di fronte o delle montagne alle spalle, dei gatti che lo abitano o di mio figlio che non vede l’ora di metterci il naso.
MT - Quale è la mostra più bella che hai fatto e perché?
CDM - Se per te è lo stesso, preferirei parlare della scultura più bella che ho fatto (in questi ultimi anni): ALc’è (basta bussare).
è un’opera completa e circolare. Nasce da un insieme di coincidenze e si sviluppa in un assurdo linguistico. è visionaria: una camera da letto (la mia), perfettamente riprodotta in scala, con una figura zoomorfica (alce) seduta, alle sei del mattino, sul letto... immobile come uno stoccafisso di terza categoria, a guardare con occhiospento un fuori che si illumina di calore. La notte era passata e un ultimo brivido gli increspò la pelle elettrizzandogli i corti peli della schiena. Sette giorni di immobilità claustrofobica lo avevano ormai ingessato e incattivito, i pensieri gli si erano dilatati nella testa e comprimevano quell’interno cefalico; con quelle articolazioni irrigidite non sarebbe riuscito neanche a ... e neanche ci pensava più a mouversi di lì. Otto anni di attesa per l’età giusta, come gli altri, i maschi cornuti che più sono grandicornuti e più grandimpettiti.
La mattina diventò pomeriggio che diventò sera. La notte il sangue pulsò più forte e ancora più forti pulsarono i pensieri e ... slup, lui sentì, in un’implosione emotiva, il doppio risucchio che aspirava, all’interno del suo corpo, le estremità degli arti anteriori. La scossa percorse le spalle, salì nel collo e tuonò nelle orecchie fino alla fronte con il primo bernoccolo di sinistra per poi contarne altri nove, dieci protuberanze su due cornoni da far invidia ... Al è ancora lì, ALc’è, è nella sua tana, immobile come uno stoccafisso di seconda categoria, a guardare un fuori che si riillumina di calore mentre vaga tra i molti luoghi che il suo pensiero tattile ha generato.
MT - Quanto influisce la città in cui vivi con la tua produzione? E’ indifferente? Preferisci girare di città in città o lavorare sempre nel solito posto?
CDM - Vivo bene nel mio paese da mille anime e questo fa bene alla produzione ma è anche vero che in provincia succede poco (quando succede). Comunque stiamo parlando di produzione e questa, anche se amo molto girare, anche se sono costretto molto a girare, è un’attività che mi piace svolgere nel solito posto.
MT - Ormai consacrati Cattelan e Beecroft, tra i giovani artisti italiani chi secondo te ha delle chance per emergere sulla scena internazionale? Chi invece è sopravvalutato?
CDM - Faccio un’analisi politica veloce: uno, due, tre... Gabellone. Altrimenti mi perdo tra i nomi di decine di ottimi artisti. Mentre Tuttofuoco lo metterei volentieri tra i sopravvalutati.
MT - La politica culturale italiana e il sistema privato dell’arte. Per un giovane artista cosa significa rimanere in Italia, produrre, investire, costruire qui?
CDM - Mi piacerebbe fare la stessa domanda a un lituano o a uno svizzero, a un belga, un coreano, un palestinese, un turco, un somalo, un cileno, un australiano ecc... significa stare nel proprio paese e, se ci si riesce, in contatto con il mondo.
intervista per ESPOARTE
PIERA PERI - Per la tua mostra presso la fondazione Volume! di Roma hai scelto il titolo “Demeocrazia”. Mi suona sia un po’ come una rara professione di autarchia da parte di un artista rispetto a un sistema che sempre più privilegia gli artisti da copertina sia una sorta di presentazione del mondo di Carlo De Meo…
CARLO DE MEO - DEMEOCRAZIA è prima di tutto un gioco di parole, un’imperdibile coincidenza tra la prima parte di un termine e il mio cognome, quindi una delle azioni più tipiche del mio fare. Ma DEMEOCRAZIA è anche un lapsus vocale, un bellissimo errore da affidare a un’azione e a un luogo per accentuarne le sue potenzialità circolari.
L’errore, in un Big Bang scardinatore, riforma il “termine” che, da lineare e perentorio, acquista circolarità attraversando più punti di lettura per tornare allo sbaglio fomentatore. DEMEO è l’errore e la sua azione è l’errare.
Tre anni dopo, VOLUME!. Qui per la prima volta non mi lascio catturare dal luogo e da i suoi “vizi”. Non mi adeguo e in una sorta di anarchismo del punto di vista, esagero coi rimandi, evito la fine… TILT.
Ora ben vengano le tue supposizioni anche se questo mio “sogno autarchico” suona molto di presunzione.
PP - Molte delle tue installazioni sviluppano il tema del mimetismo: l’uomo arriva a confondersi con ciò che lo circonda fino a “cosificarsi” e perdersi nel mondo che lo ingloba. Il “tuo” mimetismo, come quello del mondo animale, è anche un estremo atto di difesa?
CDM - Forse, ma proviamo a leggerlo su un versante diverso e più intimista.
“Essere nel luogo”, leggerlo dal suo interno, penetrarlo e lasciarsi penetrare come una spugna immersa, assorbire…imbeversi. Il “mio” mimetismo è forse questo, se penso al “luogo”, ma poi c’è lo spettatore, …ci sei tu che guardi, c’è la tua distrazione, INVISIBILITA’, poi un attimo, un’impressione, un tornare indietro, NON MI VEDI? TI OSSERVO. Ora sei tu che mi guardi e la tua attenzione cresce e cerca di disincagliarmi dal contesto… sei ancorato e lo spazio si rivela nei suoi inutili dettagli. Questa è la sensazione che ho rivedendo l’Impressionista (per chiarezza: il tu sono io e l’io è lui, l’impressionista).
PP - Al BAD di Casandrino (NA), per la mostra “LEMANINTESTA, hai presentato una installazione in cui dominava lo spazio un carro armato con un uomo che guardava stupito all’interno del mirino. Più in là sprofondato nel pavimento un secondo uomo, mezzo denudato, con il sesso in aria. Infine una schiera di sedie rosse in miniatura con due uomini non più indifferenti quanto infastiditi e in procinto di abbandonare la passività che oggi troppo ci caratterizza. Il carro armato, un focolaio di rivolta, Il Manifesto che esce dalle tasche dei soggetti, sono tutti richiami alla sfera della politica. in che modo l’arte si deve relazionare alla politica e tradurne i temi?
CDM - In modo eticamente scorretto ma esteticamente sublime. Per un attimo.
(…ma sono veramente palesi richiami alla sfera politica? Io le chiamo coincidenze. Il vero protagonista era, ed è, lo spazio; la distanza, come campo magnetico, tra due soggetti, “…il breve lasso temporale che intercorre tra la canna di un carro armato e due occhi puntati nel suo centro…”.)
PP - In alcuni lavori di qualche anno fa tu stesso diventavi opera e partecipavi con il tuo corpo alla loro realizzazione. Oggi crei delle sculture di uomini che molto ti somigliano anche se mantengono tratti lievemente androgini. Quanto c’è di autobiografico nelle tue opere? Quanta necessità di rispecchiarsi in esse?
CDM - Nessuna necessità di rispecchiarmi in esse ma l’esigenza che siano l’oltre, l’altro da me.
Ho sempre disegnato, modellato e composto un “me stesso” riformato ma non mi sono mai dedicato all’autoritratto.
Costruisco immagini attraverso la memoria. Mi serve un volto, ecco che si forma il mio o meglio, la memoria che ho del mio. Per questo i miei personaggi trattengono, per esempio, i volumi del mio naso, il colore della mia carne o i gesti delle mie braccia ma non il culo che la memoria pesca altrove… le mie figure sono anatomicamente scorrette e, a volte, perfettamente androgine.
Quindi nessuna necessità di rispecchiarmi in esse ma l’esigenza che siano l’oltre, l’altro scaturito dalla memoria di un presente appena trascorso.
PP - Realizzi installazione di piccole dimensioni che riescono però a catalizzare lo spazio: come leggi e come entra il problema dello spazio nel tuo lavoro? Può essere definita una componente significativa della tua ricerca?
CDM - Essenziale. Userei questo termine invece che “significativa” (anche perché non amo le parole che iniziano per ‘significa’). Ma torniamo alla domanda, la prima.
Ho sempre concepito il tutto come luogo (gli oggetti, le immagini, le parole) perché, del luogo, amo la sua percorribilità, l’attraversamento labirintico… INBILICO*. *NB:
intervista per INCHIESTA SULL'ARTE a cura di E. Crispolti
Per domande si intendono temi-chiave da cui possano scaturire riflessioni, considerazioni, racconti.
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Etica/Estetica
Se questa dialettica rientri nell’elaborazione del proprio lavoro artistico.
C’è un’alternativa? Non pensavo che ne potesse esistere. A questo punto mi nasce un dubbio ed è la terza volta (nel giro di quattro minuti). Mi sposto sulla mia libreria, che è a sinistra, e prendo il dizionario: “…che si occupa del problema morale” e tre pagine prima “…che si occupa del bello”. Non ho più dubbi (ahi,ahi,ahi). In fondo sono cresciuto in un contesto dove le norme etiche etichettano ancora le regole sui mezzi, sui fini e sui moventi, quindi sul fare. Dapprima in un ambito più consolidato, in questa sorta di dottrina, in perenne mutamento (per fortuna), che di fatto guida le azioni umane. Poi in un insieme più introspettivo e critico, dove le esigenze, legate ai propri valori soggettivi, sono in stretto rapporto con una responsabilità ampia, fisicamente universale. Per approdare infine, attraverso processi di concretizzazione visiva, a oriente, nell’Est-etica… ho provato anche dall’altra parte, a ovest, ma in fondo il FarWest non mi ha mai convinto (da quelle parti sparano anche alle comete).
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Maestri e compagni di strada
Quali sono stati gli incontri importanti nel corso della formazione e dell’esperienza vissuta?
Non riesco a definire quali siano stati gli incontri che possano avere influito fortemente sul mio fare, forse per pigrizia momentanea, forse per volontà, forse per eccesso di memoria. SO Soltanto che tra i tanti, tantissimi, solo alcuni, tra i più insignificanti, tra quelli passati e via, senza pretesa, ritornano incessantemente con il loro ritmo rotatorio… parole (non molte), immagini (alcune), colori (uno). In fondo ho incontrato molte persone che mi hanno educato, consigliato, insegnato, preparato, avviato, ma pochi Maestri che mi hanno diseducato: grazie Pino per i bachi (agli altri, auguro ancora lunga vita e prosperità). E poi Antonio, Maurizio, Paolo e Massimo, compagni di strada quando la strada, per noi, era una, balbettante.
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Committenza
Oggi, in che termini se ne può parlare? Se c’è, ti vincola o ti sprona?
Oggi come in passato, chiusa nel suo perimetro predefinito (soggetto, luogo), più o meno colma di fattori inquinanti (requisiti) e ponendo poca attenzione agli scardinamenti che un pensiero contemporaneo provoca, la committenza espone ancora l'artista al confronto unilaterale con la dimensione pubblica. Quand’è che potremo ribaltare i fattori ed esporre il “pubblico” al confronto con la “dimensione” artistica?…
…comunque sia, la committenza, resta sempre una delle migliori provocazioni che mi si possano fare.
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Dimensioni del tempo
La durata, la memoria e ogni altra possibile dimensione. Se avvertito come determinante, anche il momento storico.
Racconto storie, di quelle che mi sono già raccontato, frammentate dalla memoria di un presente appena trascorso, un subitodopo indimensionabile, impercorribile, afferrabile… bile, che te la risputa in un botto all’una del mattino, di questo venerdì che è già sabato. Luglio.
Da due ore guardo l’intermittenza di questa doppia coppia di numeri. Scoppia. Il libro, che leggevo nella penombra, si è inceppato a pagina tre limitando il mio campo d’osservazione. L’intermittenza continua, scoppia. Quattro, percorro il libro per intero ascoltandone il fruscio. Ho necessità della fine, per terrore, per errore, per ore ci provo. All’alba, alle cinque (per un attimo), sogno. Riguardo l’intermittenza e leggo - Ora: sei, da trentanove anni.
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Racconto storie, di quelle che mi sono già raccontato, frammentate dalla memoria di un presente appena trascorso…
intervista per TAKE IT EASY magazine
ALESSANDRA DINI - Hai sempre abitato nella tua casa attuale oppure ti sei trovato a fare più volte i bagagli per traslocare da un luogo ad un altro? Ci racconti la storia della tua casa.
CARLO DE MEO - In teoria si! Non ho mai cambiato residenza anche se a diciott’anni mi sono trasferito a Roma (chissaperché!) e poi a Frosinone (chissaperché!) fino a che, accademizzato, sono partito a servizio della patria: servizio civile, Pontassieve, 24 mesi (6 più i diciotto di marina, che non è una mia amica ma la semplice collocazione strategica di un potenziale combattente) diventati 12 (grazie ad una legge omologante), milleottocentoventicinque lire al giorno, domenica libero, congedo illimitato e riassunzione per altri tre anni, l’incontro con R. (mammaritamiamoglie) e il ritorno in via mons. Ruggiero 2, come da carta d’identità, perché, in realtà, non ho mai cambiato residenza. 1993.
La “casa” l’ho ereditata da mio padre che nel ’70 la messa su. Avevo quattro anni (è vero, a quattr’anni ho cambiato residenza) quando il portone automatico mi si è magicamente aperto davanti, un “apritisesamo” che ricordo ancora, poco lontano da un “apritisemisenti” della vecchia casa in centro senza campanello.
Palazzina di due piani con vista sbilenca sul mare, scale di marmo, finestroni accecanti e balconi infiniti dove correre shiningamesche pedalate tricicliche. Eh…si, una bella casa dell’età del nuovo.
AD - Vivi e lavori a Maranola, città in cui sei nato; hai mai avuto la tentazione di emigrare altrove in Italia o all'estero?
CDM - Si! Da piccolo volevo vivere a parigi (chissaperché!). Ci sono andato nove volte e per ora non ci voglio più andare. Poi Roma. Vivere a Roooma. Ma ero solo un liceale che fremeva dal desiderio di svincolarsi e dopo un anno di Roooma mi svincolai dal desiderio di svincolarmi. A volte, nello spazio della casa, echeggia la frase –se in Italia continua così, me ne torno in Svizzera (perché R. è ticinese)… e tu vieni con noi!- e il noi comprende anche Elia (quattr’anni, guerrigliero accanito e gormitiano per vocazione), Noè e Mina (gatti neri), Agrippa (gatto bianco) e Palma (gatto bianconero).
Comunque ora siamo qui e l’unico vero desiderio migratorio è trasferirci in campagna, a due chilometri più su.
AD - Da quando scrivo per questa rubrica mi è sembrato di poter constatare tra le persone due atteggiamenti opposti nel concepire lo spazio della propria abitazione: da un lato coloro che soffrono della "sindrome del criceto" e che modellano la casa intorno al proprio corpo, circondandosi di un caos confuso di materiali ed oggetti che assumono l'aspetto di una seconda pelle, dall'altro i razionalisti che con lo "spirito geometrizzante di un'ape" danno ad ogni oggetto una collocazione precisa e funzionale all'interno della casa. In quale delle due figure ti riconosci ed in che modo questo può aver condizionato il tuo lavoro come artista?
CDM - Sono uno di quelli che soffrono della "sindrome del criceto" e che modellano la casa intorno al proprio corpo, circondandosi di un caos confuso di materiali ed oggetti che assumono l'aspetto di una seconda pelle e poi c’è R., razionalista, che con lo "spirito geometrizzante di un'ape" da ad ogni oggetto una collocazione precisa e funzionale all'interno della casa.
Entrambi (R. ed io) amiamo circondarci di oggetti o meglio, amiamo incorporare oggetti di ogni tipo… ed io continuo ad incorporare e l’accumolo cresce (il mio studio, nel suo apparente caos, ne è l’esempio) e con esso la ‘tensione’. Tutto si muove e nulla è come oggi e così ci si perde in questi percorsi labirintici dove, quasi mai, la meta prefissata corrisponde all’arrivo.
Tutto ciò condiziona il mio lavoro come artista? Tutto mi condiziona e di conseguenza… la curiosità è che spesso uso questa casa (o lo studio) come complemento delle mie opere. Penso ai Tagliati (1997-99), a Lunghebraccia (1999) e ai S.Anti (2000-01) tutti inseriti nella quotidianeità della casa, e poi Alc’è (2003) in cui riproduco fedelmente (ma in scala) la mia camera da letto o Chesignifica (cover n°19 di Exibart) dove mi mimetizzo tra gli oggetti della scrivania. Ed ecco che la casa (non “l’idea di”, ma quella vera in cui vivo) diventa il luogo dell’astrazione nella sua estrema concretezza, lo svincolo a cui sono strettamente vincolato.
AD - Ripercorrendo con la memoria gli anni trascorsi in questa casa a quale stanza associ il ricordo più bello?
CDM - Il salotto, il salone, la sala, il soggiorno, in poche parole, la stanza grande.
Era il 1993, autunno, e ci eravamo appena trasferiti. La casa era semivuota e la stanzagrande era la più vuota di tutte, nel senso che non c’erano mobili, ma colma di tutto ciò che i mobili dovrebbero contenere. Pile da mezzometro di libri ne occupavano una parte, scatoloni, tavolo, due sedie e tappeto l’altra. In mezzo, noi.
- Il corridoio.
Era il 2002, estate, e da qualche giorno eravamo rientrati in tre. La casa era aperta e buia e il corridoio più buio e silenzioso in quelle silenziose calde serate. Marsupiato, andavo avanti e indietro, ondeggiando, con passo lento, al suono cupo della mia voce. Lui dormiva.
AD - Il bagno è il tema centrale di questo numero della rivista. Che rapporto hai con questa stanza della casa: vi trascorri molto tempo, magari dedicandoti alla lettura di riviste e libri, oppure sei capace di uscire dimenticandoti perfino di guardarti allo specchio. Insomma quanto sei vanitoso?
CDM - Quanto sono vanitoso non lo so. So che sono vanitoso ma questo non lo misuro nel bagno e poi non sopporto gli specchi… fino all’anno scorso, lo specchio del nostro bagno misurava circa 50 per 40 centimetri, quasi come il ritratto della Brembati di Lotto (lo avete mai visto? A malapena c’entra la testa).
Il bagno, per me, è sinonimo di risveglio, dei miei lentissimi risvegli mattutini.
Stanza di Riscaldamento Sensoriale
Attività:
- fare pipì
- sciacquaregli arti superiori (lavarsi le mani: attività deresponsabilizzante e liberatoria) e la testa (in caso di crescita incontrollata dei capelli, la faccia)
- pausa caffè, occhiospento sul tavolo, sigaretta
- ritorno nella SRS
- accomodarsi
Da adesso, per almeno mezz’ora, lasciatemi tranquillo con le mie parolecrociate e i miei rebus.
Attività secondarie (all’occorrenza):
- docciacalda o bagnoschiumoso
- intimisciacqui
- barba (una o due volte a settimana)
- pedicure e mani pure
Dopo tutto questo, sono capace di uscire senza guardarmi allo specchio.
AD - Nel tuo libro Casalinghi (Modo edizioni, 1999) mi ha colpito molto la trascrizione di un dialogo (reale o immaginario) con quella che presumo essere la tua compagna. In esso è possibile trovare l'anticonformismo fatto quotidiano: trecentosessanta secchi di plastica blu, la materia prima di alcuni tuoi lavori, corrispondono per te ad una delle voci nella normale lista della spesa, tra lo zucchero e le sigarette, senza destare nessun particolare scalpore tra coloro che ti sono più vicini. Credi di aver trasmesso alla tua famiglia, dopo anni di convivenza, un modo nuovo e più fantasioso di guardare gli oggetti, lo stesso che ispira la tua creazione artistica?
CDM - Forse si. Forse no, ma… scusami un attimo … siii, R., sono rientrato.
-
R - fatta la spesa?
-
C - ho comprato trecentosessanta secchi a duemila e ottocento lire, di quelli blu, con il manico di ferro… belli!
-
R - cosa prepari?
-
C - una sfera.
-
R - hai tutto?
-
C – mi mancano dei ganci,…, quattro-cinquecento ganci, ideali se neri
-
R – ce ne dovrebbero essere ancora. Guarda in alto, nella credenza.
Sono passati sette anni e non è cambiato nulla, eppure dopo solo qualche mese era cambiato tutto.
intervista per TESI
SARA PASSIGATO - In un’intervista ha detto di credere alla contaminazione tra artisti e all’impossibilità di accettare l’idea del precedente unico e assoluto. Se le nomino Luigi Serafini, lo reputa uno degli artisti che possono averla influenzata?
CARLO DE MEO -Non amo la purezza e adoro il difetto, mi piace errare, mi piace essere inquinato e mi piace che i miei lavori si sporchino di ciò che hanno intorno. Proprio nei luoghi cerco il difetto su cui intervenire e giocare. Un esempio? L’installazione Z che ho esposto al Museo Laboratorio in Abruzzo. Il Luogo è una fabbrica tessile dell’800, il cui pavimento ha avuto un cedimento creando una conca con un dislivello di circa 20/25 cm; ho approfittato di questo difetto per inserirvi un pezzo intitolato Lignorante. Un dormiente che ho collocato disteso su ventitre tappeti persiani, con i quali ho colmato l’affossamento riportando la figura della mia installazione a livello del pavimento. Lignorante è un’opera che esiste già in se, sola con il suo corpo, ora, distesa su un ziggurat di tappeti, per un momento, diventava altro, si arricchisce d’altro grazie al difetto del pavimento.
Quanto a Serafini, non c’è nessun rapporto tra noi. Ho avuto modo di vedere una sua installazione a Roma e di restare colpito dall’opera Lady C, quella donna/sirena la cui parte inferiore del corpo è una carota… ma tutto questo è surrealismo. Tra me e Serafini c’è una differenza formale minima, ma abissale nella metodologia; lui è surrealista. Io il surrealismo lo utilizzo (quando mi è comodo); sono molto più concettuale, entro nei luoghi, nelle forme, nelle parole. In un testo del ’99 scrivo “i luoghi sono luoghi, gli oggetti anche”.
Ma questo non elimina il fatto che parte di quella carota possa avermi deviato nel mio errare… sono stato contaminato, incuriosito… (e qui c’è un bel gioco di parole, permettimelo)… sono inCURIOsito, sono nel luogo del Curio (Cm-n.a.96), nel luogo delle radiazioni, sono radioattivo, sono un elemento instabile, sono contaminato.
SP - Tornando per un attimo a Serafini, le faccio qualche esempio per spiegarle come nasce la mia domanda. Nell’opera Scalamultiusofaidate, tra i vari oggetti che creano la scala, c’è il libro Terra! di Stefano Benni, sulla cui copertina è riportato un disegno di Serafini. O ancora, nell’opera Bla Bla ho trovato elementi di similarità e contrasto con l’installazione intitolata Solo Silenzio, sempre di Serafini.
CDM - In Scalamultiusofaidate la presenza di quel libro è una casualità anche se indotta. Nel momento in cui ho dovuto riempire con più oggetti l’installazione, per cercarli ho adottato il metodo di selezione automatica all’interno del mio raggiodazione. Nei molti mesi di lavoro per la preparazione degli oggetti, quindi nel tempo che trascorre tra la collocazione del primo, che solitamente è il più eclatante, fino all’ultimo, il più piccolo, c’è un trascorso temporale e di vita, un cumulo di polvere che ti viene addosso.
A volte, essi (gli oggetti d’arredo), si caricano di significato, altre volte di equilibri geometrici o cromatici e altre ancora di sentimento o memoria. A volte aprono coincidenze incredibili (come questa), a volte no. In alcune installazioni più recenti ho utilizzato riduzioni de Il Manifesto, ho scelto ogni volta un titolo preciso che però, pur nella sua intenzionalità, non va a intaccare il senso ispiratore del lavoro, piuttosto crea una sorta di aura che dà luogo a dei rimandi continui. I titoli che scelgo per i miei lavori portano a dei rimandi infiniti, ad un labirintico errare, al perdersi.
Per quanto riguarda Bla Bla e l’installazione di Serafini a cui lei fa riferimento, è una bellissima coincidenza, ma non conosco l’opera. Nella mia installazione, il bla bla all’interno dei fumetti è l’eccesso che diventa annullamento, silenzio rumoroso o meglio… un rumoroso silenzio.
Torniamo alla contaminazione tra artisti. Per me non si gioca su singoli pezzi, ma sull’insieme del pensiero dell’artista. Poi non restano che tre o quattro elementi chiusi nella mente, sono quelli che ti portano a muovere qualcosa in più… sono la CAROTA.
Tutte queste cose che ti sto dicendo in realtà è come fossero bugie perché in questo momento lei mi sta contaminando e probabilmente, non lo so con certezza, io sto avendo lo stesso effetto su di lei.
SP - Dagli oggetti tagliati che ha adattato al suo corpo fino alle riduzioni in scala presenti nei vari environment, c’è un motivo che l’ha portata a scegliere di essere fisicamente all’interno dei suoi lavori?
CDM - In realtà io non ci sono. Non lavorando con i modelli, tutto quello che realizzo lo faccio seguendo la memoria, di conseguenza quando costruisco un volto quello che ricordo di più è il mio. Il corpo che conosco meglio è il mio, le posture, i colori, le espressioni sono mie.
Non faccio autoritratti, anche se poi quando guardo le mie figure mi riconosco. È un automatismo artigianale-mnemonico.
Nel caso degli oggetti tagliati e delle sculture luminose era solo una comodità, era la cosa più semplice, più pratica per avere un modello da fotografare sempre disponibile. Sono casualità che poi si rivelano estremamente presenti. Io sono molto timido nell’immagine, non amo farmi fotografare.
SP - Una domanda tecnica (a volte, purtroppo, succede di imbattersi in cataloghi di mostre poco precisi). Il titolo dell’opera ConTatto, peraltro presente il collezione VAF, è corretto così come è scritto? O prevede qualche “o” finale in più?
CDM - No, così scritto è sbagliato. Si è trattato di un problema di lettura e interpretazione, il “con tattoo” è diventato “con tatto” ovvero, con delicatezza. Tutto ciò è bellissimo, l’opera ha continuato ad evolversi e a contaminarsi. Mi ha fatto piacere che l’abbia notato. In ConTATTOO c’è assolutamente un riferimento al tatuaggio. In questo lavoro, il contatto e il tatuaggio sono importanti allo stesso modo. Il soggetto dell’opera si veste delle mattonelle stesse, assorbe completamente il pavimento, si contamina in una mimesi monodirezionale.
SP - Per quale motivo la scelta dell’ironia?
CDM - L’ironia non si sceglie, c’è! O meglio, se c’è, viene fuori. Mi interessa perché sa rendere leggeri dei mattoni incredibili, dalle elucubrazioni mentali impresentabili alle creazioni intimistiche noiose per una lettura dall’esterno. L’ironia tira fuori tutto questo e ti permette di andare verso gli altri ben’accetto. Essa ti porta oltre una certa soglia di concretezza, è qualcosa di enorme.
A me viene automatica, mi piace giocare con le parole e le forme.
Cerchi? Cosa Cerchi? Triangoli? Cosa triangoli?.
Ho sempre raccontato storie o frammenti di esse, con immagini e testi, e l’ironia mi ha sempre aiutato a renderle delicate.
Ora mi piacerebbe chiudere con questo testo inedito.
Lo portarono via in manette.
Lui non oppose resistenza mentre i suoi pensieri, come i suoi occhi, guardavano in basso alla ricerca di un ostacolo che rallentasse il cammino. La porta principale rimase aperta e Lui contava i passi, o almeno ci provava, moltiplicando per tre la cadenza di questo suo nuovo corpo a sei gambe; tre di sinistra alternate da tre di destra di cui due erano a sinistra e l’altra a destra con due di sinistra. Confuso perse il conto balbettando questo impronunciabile “destr-sinistr-des-sinides-desin-sinistr-des-si-des…”. Alzò e guardò a destra, si soffermò a sinistra e tornò a destra (per sentirsi a sinistra) nel profilo ombrato da una tesa nerolucente e fiammeggiante. I due, quello di destra e quello di sinistra, all’unisono indicavano, come rotaie ascellari, la direzione che quasi mai coincideva con una logica podistica ma sempre più sembrava, in un gioco d’alternanze, il labirintico zigzagare calcistico. E, in fondo, in fondo al marciapiede la porta c’era. GOAL! …di mano, perché fu la mano destra di quello di sinistra che spinse, abbassandola, la testa di centro sotto la traversa, lisciandola. –FALLO- Gridò nel silenzio dei suoi pensieri aspettandosi una punizione esemplare d’area di rigore…più tardi, più tardi ce lo avrebbero lasciato solo e con la pallalpiede.
Sentì sbattere la portiera e, pressato sui fianchi, cedette all’imbottitura del sedile posteriore in un trasporto ipnotico nel canto della sirena.
Tutto accelerò in una sorta di daltonismo semaforico. –Se, ma, for…se- provò a dire in un eccesso di dubbio tra un giallo e un rosso (MA!) ma non c’era tempo per i colori (specialmente se di sinistra), non c’era tempo per le pause (specialmente se a destra), non c’era tempo per le parole (specialmente se di centro).
Silenzio, Silenzio e Silenzio. Ma Lui, il Silenzio di centro, in silenzio rimuginava pensieri e ricordi, più ricordi che pensieri in un guazzabuglio di luglio, domenicaventi.
Era mezzogiorno, di un mezzogiorno di mezza estate quando sentì bussare alla porta. BUONCOSTUME!
-
Grazie, ma è solo un pigiama!
E lo portarono via in manette.
ps- Oemed fu arrestato il 20 luglio 2009 alle ore 11 e 52 per mancanza di prove.
Rilasciato il 26 luglio, non rilasciò testificazioni.
intervista per DESIGN
SARA PALUMBO - Tra le sue produzioni, alcune hanno affrontato il tema del Ready Made e decontestualizzazione di oggetti e componenti. Perché questa scelta? E come ha affrontato (o ancora affronta) questa tematica progettuale oggi?
CARLO DE MEO - La mia esigenza di riformulazione dell’oggetto, inteso come ente concluso, nasce, intorno alla metà degli anni novanta, come introduzione del dubbio nei nessi di rapporti rigorosamente già definiti. Ma stiamo parlando di un approccio decisamente scultoreo: Materia, Volume e Colore avevano già una loro sintesi inscindibile e palese, a me non restava che la forma. Solo più tardi, nel 1999 e per un insieme di casualità, questa mia ricerca diventa qualcosa di molto simile al design incamerando l’idea di “utilizzo” dell’oggetto formato.
Oggi non è altro che un divertissement orbitante intorno al mio fare artistico.
SP - Quali i pro e quali i contro di una produzione che basa la propria esistenza sul riuso e la ri-interpretazione di oggetti d’uso comune o componenti?
CDM - I ‘pro’ e i ‘contro’ coincidono nei vincoli che l’oggetto scatenante determina: le dimensioni, la deformabilità e la resistenza sono gli elementi vincolanti per la sua riapplicazione in un nuovo elemento d’uso; colore e materia per l’aspetto estetico; mentre la sua reperibilità diventa essenziale per una eventuale produzione in serie.
SP - Come si coniuga il Ready Made con la tecnologia?
CDM - Nell’allontanamento da essa. Il “già fatto” implica la conclusione di un’azione tecnologica e quindi la riformulazione dell’oggetto nasce da un atto di superamento della stessa.
SP - Quale il riscontro sul mercato?
CDM - Scarso. I tempi di progettazione e realizzazione estremamente lunghi in rapporto con una produzione estremamente limitata e artigianale fanno lievitare di molto i costi.
SP - Come definirebbe il rapporto tra arte e design?
CDM - Inesistente per l’arte, subordinato per il design.
SP - Tra i prodotti nati come omaggio a Duchamp da lei progettati, quali sono quelli che hanno riscontrato maggior successo? Secondo lei, perché?
CDM - Non ho mai progettato e realizzato un “qualcosa” come omaggio a Duchamp ma tra le mie realizzazioni di maggior interesse posso citare il leggio GILI del1999 e la sedia HES del 2004. Il “perché” del loro successo è forse legato alla loro forma scaturita dalla moltiplicazione degli oggetti utilizzati in un tuttuno inscindibile: due spazzoloni per GILI e nove sellini di bicicletta per HES.
SP - Il successo di prodotti di questo genere, quanto è dovuto al progettista? Quanto alla promozione che viene fatta? Quanto, invece, dipende da altre conponenti? E in tal caso, quali?
CDM - La riuscita di un buon prodotto è sempre legata al suo progettista, il suo successo no.
SP - Quali problematiche sono state riscontrate durante la produzione e la vendita dei prodotti in questione? In che modo si sarebbe potuto ovviare?
CDM - Per me l’unica vera problematica è la produzione seriale, il giusto rapporto tra idea, oggetto e azione costruttrice che non riduca il tutto ad un altro oggetto industriale… ma forse è proprio questo che il mercato chiede.
SP - Potendo fare una stima, in quale percentuale intervengono problematiche sociali, economiche, storiche e politiche?
CDM - Per rispondere a questa domanda devo eliminare il termine “economiche” e scivolare su percentuali indefinibilmente considerabili.
SP - Da studi recenti è stato constatato che in Italia, molto più che all’estero, prodotti di questo genere non sempre vengono capiti fino in fondo e, di conseguenza, sono destinati a rappresentare episodi isolati e fini a se stessi, seppur frutto di sperimentazione e innovazione.
E’ d’accordo a tal proposito? E se si, a cosa lo dobbiamo?
CDM - Noi italiani siamo così abituati al rimpasto, alla visione non perentoria e quindi al riutilizzo (e non al riciclaggio) che non percepiamo in tutto ciò ne sperimentazione, ne innovazione se non in rari casi di genialità.
intervista per ...
nn - Quale messaggio ha voluto comunicare la prima volta che ha esposto una sua opera d'arte?
CARLO DE MEO - Sono passati ventott’anni dalla prima volta che mi proposero di esporre un mio lavoro (in una “mostra d’arte”) e avevo sedici anni e mi dissi –se dici qualcosa dillo.- e appesi al muro un disegno a china. Un cinquantapersettanta con al centro un bel volto di fanciulla dalla chioma liscia, con qualche capello fuori posto, e tra occhi e fronte la trasparenza di un bambino seduto sulla tazza del cesso. Pensieri assurdi pensai e “pensieriassurdi” scrissi. Ma l’assurdo, nei miei pensieri, si perdeva tra le migliaia di linee di quella chioma che come pettine la mia mano cercava di districare. Avevo detto qualcosa ma, come essere bugiardo, non avevo detto la verità.
nn - Qual è la sua concezione di arte e a quali autori o correnti si ispira quando crea?
CDM - “Autori” e “correnti” fanno parte del mio bagalio culturale come colori, forme e simboli, come orizzonti, scorci e muri, come oggetti, piante e animali, come persone, come luce, come oscurità… “autori” e “correnti” preferisco dimenticarli nell’innata esigenza di perdermi nell’altro. E “nell’altro” concepisco la mia idea dell’arte trattandolo in modo eticamente scorretto ma esteticamente sublime, per un attimo, … , e per un attimo solo, la grande bugia, soddisferà i desideri della verità. Un attimo.
nn - Quale realtà vuole modificare quando esibisce le sue istallazioni? E perchè si è proposto di farlo proprio con queste modalità?
CDM - Il mio desiderio, quello che adagio tra le mie installazioni, trattiene in se l’idea di alterazione intesa come rilettura del luogo che incespica, sempre, nel difetto, nell’errore e nell’errare in esso. Un’attrazione del disturbo come sublimazione dell’unicità. Quindi, un modificare che non trasforma il soggetto ma lo sposta dal suo consueto punto di correlazione con l’esterno innescando alternative e ripensamenti che daranno, al soggetto stesso, una diversa intenzionalità. E questo è il desiderio, forse l’unica certezza, fatua come il desiderio, che percorre il mio trascorso e ancora, e ancora, e ancora… e ancora oggi ricerco, ogni volta, il punto di ancoraggio dove ciò possa manifestarsi senza mai prediligere un porto ad un altro, una modalità ad un’altra.
Concepisco il fare come autocompiacimento e il suo prodotto come elemento ultimo dell’idea generatrice e come principio di riformulazione del linguaggio attraverso lo spettatore, pertanto cerco sempre (o quasi) una “modalità” appagante, una terradimezzo in cui coincidano autentiche bugie e false verità.
nn - Secondo lei, ci sono dei fattori locali che la legano al suo territorio quando crea? E se ci sono, quali?
CDM - MARE, come goccia in un mare, mare grosso che rompe in mare, cerco per mare e per terra l’azzurro mare. Sono in alto mare in questo porto di mare dove, tra un mare di parole in un mare di folla, porto acqua al mare e prometto mare e monti per sedare il mio mal di mare. Io, lupo di mare, acqua che va al mare, son frutto di mare e amo amare. Il mio mare.
nn - La sua esperienza espositiva che le ha regalato di più a livello artistico e personale.
CDM - Non posso negare che ogni mostra, o intervento, o progetto regalino attimi di pura completezza nella perfetta coincidenza (come già accennavo) tra punto di chiusura (esposizione dell’opera) e punto di apertura (fruizione della stessa). Questo rende difficile una selezione o una graduatoria su un livello strettamente concettuale… e perché no, sentimentale. Ma se rivedo il tutto con uno sguardo pragmatico non posso che mettere in risalto la presonale del 2006 alla Fondazione VOLUME! di Roma.
“DEMEOCRAZIA”. Qui per la prima volta non mi lascio catturare dal luogo e da i suoi “vizi”, che sono i punti cardini per le mie installazioni. Non mi adeguo ma, al contrario, adatto lo spazio alle mie esigenze riorganizzandolo e, in una sorta di anarchismo del punto di vista, esagero coi rimandi, con la circolarità, evito la fine… TILT.
nn - Quali sono i suoi prossimi progetti per il futuro?
CDM - Il presente.